L’accessione al possesso, quando è lecito cumularlo a quello del proprio dante causa ai fini dell’usucapione
Condizione perché ciò avvenga è che ci siano tutti gli elementi costitutivi del possesso in capo ai soggetti che si avvicendano nel godimento della cosa
Con l’ordinanza numero 17077 del 14 giugno ultimo scorso, la Suprema corte, richiamandosi a consolidati principi di dottrina e giurisprudenza, ci rende edotti di come vada correttamente inteso ed applicato l’istituto noto come accessione nel possesso.
Trattasi di un provvedimento interessante e dai risvolti pratici notevoli, che merita sicuramente di essere esaminato.
La vicenda processuale
Alcuni condòmini si rivolgevano al Tribunale per fare accertare e dichiarare la proprietà comune del vano sottotetto dell’edificio, un locale che era detenuto in via esclusiva dai condòmini convenuti. L’intenzione era quella di giungere al rilascio di copia della chiave della porta d’ingresso del locale, facendo sì che lo stesso potesse tornare liberamente fruibile da tutti i compartecipanti alla cosa comune. In primo grado veniva accolta la domanda attorea, e si dichiarava dunque la natura condominiale del bene.
I soccombenti ricorrevano in appello, e la Corte territorialmente competente ribaltava la decisione; veniva difatti riconosciuto il possesso in via esclusiva del vano sottotetto, ciò in quanto l’immobile era stato espressamente ricompreso nell’atto di compravendita con cui si era proceduto all’acquisto dell’unità abitativa ove vivevano gli appellanti. Inoltre, ad avviso dei giudici di secondo grado, nel caso di specie era possibile ravvisare l’operatività dell’articolo 1146 del Codice civile, che al suo comma 2 prevede che il possessore attuale di un dato bene, ricevuto per atto tra vivi, può unire il suo attuale possesso con quello del proprio dante causa, con l’evidente finalità di pervenire all’usucapione del bene in parola.
Possesso attuale come prosecuzione di quello del dante causa
Condizione perché ciò avvenga, è che si realizzi un reale impossessamento del bene, ovvero che vi siano tutti gli elementi costitutivi del possesso in capo ai soggetti che si avvicendano nel godimento della cosa. Ebbene, la circostanza che in tutti i successivi atti di compravendita fosse ricompreso il vano sottotetto, nonché la materiale detenzione delle chiavi di accesso al locale tanto in capo al dante causa, quanto in capo agli appellanti (elemento emerso anche durante l’istruttoria del procedimento), fondavano il convincimento dei giudici d’appello circa il doversi pronunziare in modo totalmente opposto ai giudici di primo grado.Come può facilmente intuirsi, i condòmini che avevano avviato il giudizio innanzi al Tribunale non accettano di buon grado la loro soccombenza in appello, e si rivolgono alla Suprema corte.
I motivi di ricorso e la decisione della Cassazione
La difesa dei ricorrenti tende a dimostrare come nessun riferimento al vano sottotetto della palazzina sia rinvenibile negli atti di compravendita dell’unità abitativa.Conseguentemente al suddetto rilievo, non appare affatto applicabile al caso di specie la previsione di cui all’articolo 1146 del Codice civile 2 comma, in quanto mancherebbe il titolo astrattamente idoneo a supportare il possesso, e l’accessione nello stesso.Da ultimo, i ricorrenti osservano che non sarebbe mai stata fornita prova del sussistere di un possesso qualificato per l’usucapione, così come non sarebbe emersa, in corso di causa, nessuna evidenza circa la cessata condominialità del vano sottotetto.
Investiti della vicenda, i giudici di Piazza Cavour decidono sulla scorta di alcuni consolidati principi di dottrina e giurisprudenza.Nel valutare se fosse o meno fondata la non ravvisabilità della fattispecie di cui al 1146, 2 comma, del Codice civile, gli ermellini pongono mente a quanto asserito da unanime dottrina.In buona sostanza, per la cosiddetta accessione nel possesso, non appare necessario il prerequisito del titolo astrattamente idoneo, ma sarebbe sufficiente che, tra due differenti soggetti, sia intervenuta una materiale consegna del bene su cui, prima e dopo, veniva e viene esercitato il possesso. I fatti ed i documenti di causa, dimostrano che i condòmini ricorrenti abbiano ricevuto in consegna le chiavi del locale oggetto del contendere dal loro dante causa, già possessore del bene che da tempo aveva perso la sua originaria funzione di sala ove era allocato l’impianto termico centralizzato.
L’acquisto del bene in buona fede
I ricorrenti hanno dunque potuto legittimamente sommare il possesso del loro dante causa al proprio, ed al momento dell’instaurazione del giudizio nei loro confronti, avevano già maturato il decennio necessario all’usucapione breve ai sensi del 1159 del Codice civile (chi acquista in buona fede da chi non ha titolo di proprietà su di un dato bene, e l’acquisto avviene in forza di un titolo idoneo e trascritto, compie l’usucapione in 10 anni dalla trascrizione). Quanto alla mancata prova della cessata natura comune del bene, la Cassazione sottolinea come l’istruttoria (escussione del manutentore dell’impianto termico) avesse reso palese che il locale, in passato destinato alla funzione di vano tecnico, non fosse più, già da diverso tempo, strumentale al condominio.
Sul punto, viene richiamato un consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui: un bene deve considerarsi comune nel solo caso in cui, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti concretamente ed oggettivamente destinato all’uso comune. Ne consegue, per contro, che esso deve essere reputato pertinenza dell’appartamento, di cui costituisce proiezione, nel caso in cui assolva all’esclusiva funzione di isolare l’unità abitativa.A tale principio si sono correttamente attenuti i giudici di secondo grado, confortati nel loro decidere anche dalle risultanze istruttorie; nessuna censura può dunque muoversi alla sentenza impugnata, con la logica conclusione che i condòmini ricorrenti potranno pacificamente conservare la signoria esclusiva sul vano sottotetto.