Condominio

In condominio prevalenza delle esigenze di vita rispetto a quelle commerciali

Lo precisa una pronuncia della Cassazione. L’articolo del codice relativo alle immissioni di rumori, calore e fumi può riguardare anche il condominio

di Ettore Ditta

Un immobile che fa parte di un edificio condominiale può essere destinato ad un uso abitativo oppure ad un uso commerciale, intendendo con quest’ultimo qualsiasi attività di genere esclusivamente lavorativo. Ma non sempre questi due differenti utilizzi sono compatibili all’interno di uno stesso edificio. Infatti particolari attività lavorative, come accade quando si utilizzano macchinari che producono emissioni di rumori, di calore o di fumi, impediscono il normale utilizzo abitativo delle altre unità immobiliari comprese nello stesso edificio.Bisogna allora stabilire quale, fra le due attività, deve prevalere rispetto all’altra.

Si tratta di un aspetto che, benché rilevante e di frequente applicazione nelle realtà condominiali, spesso viene ignorato, nel tentativo di realizzare comunque una coesistenza fra le opposte esigenze dei condòmini, che invece, di fatto, finisce per sacrificare maggiormente (ed ingiustificatamente) una sola di esse.Lasciando del tutto da parte i casi in cui i fastidi provocati dalle attività lavorative concretizzano addirittura violazioni di specifiche disposizioni normative (come ad esempio i limiti di rumorosità) – per i quali non si pongono neppure problemi effettivi di accertamento della loro illegittimità – per tutti gli altri casi ci si deve chiedere invece quale è il “metro di misura” da utilizzare.La risposta è che nel bilanciamento fra le esigenze abitative di alcuni condòmini e quelle collegate alle attività lavorative di altri, quando si verifica un contrasto fra di esse provocate da un determinato uso delle parti comuni (o anche di quelle private), prevalgono le esigenze abitative.

La pronuncia della Suprema corte

Si tratta di una aspetto che è già stato affrontato dalla stessa Cassazione con una decisione (Cassazione sentenza 15 marzo 1993, n. 3090), che non ha mai visto variazioni. Il riassunto dettagliato della decisione può essere utile per comprenderne meglio le ragioni.Con riferimento ad un caso di immissioni provocate da una canna fumaria, collocata nella parte terminale del muro perimetrale comune a breve distanza dalle finestre di alcuni condòmini e destinata a smaltire le esalazioni di fumo, di calore e gli odori prodotti dal forno di un esercizio commerciale compreso nel fabbricato condominiale, la Suprema corte ha affermato che l’articolo 844 del Codice civile, che disciplina le immissioni, trova applicazione anche negli edifici in condominio quando un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, provoca immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condòmini.

Nell’applicazione della disposizione si deve avere riguardo, per individuare il criterio di valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, alla peculiarità dei rapporti condominiali e alla destinazione assegnata all’edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari, con la conseguenza specifica che, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti (sia abitazione che esercizio commerciale), il criterio dell’utilità sociale, a cui è informato l’articolo 844 impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condòmini, privilegiando, in applicazione dei principi costituzionali (articoli 14, 31 e 47 della Costituzione), le esigenze personali di vita connesse all’abitazione rispetto alle utilità meramente economiche che derivano dall’esercizio di attività commerciali.

Da valutare la struttura dell’edificio

La sentenza ha spiegato che da una parte, rispetto a singole unità di proprietà individuale, nell’ambito di un unico edificio condominiale le norme sulle distanze legali di regola trovano applicazione, ma sempre a condizione che siano compatibili con la concreta struttura dell’edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei condòmini e che, quindi, è legittima la loro deroga; e allora il giudice, tenendo conto delle normali esigenze dei proprietari delle singole unità immobiliari relative al loro godimento e della struttura materiale dell’edificio, deve accertare se un rigoroso rispetto delle norme sulle distanze non si dimostri irragionevole nel caso specifico, dal momento che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei singoli interessi per garantire l’ordinato svolgersi della convivenza civile, che è tipica dei rapporti condominiali.

Di conseguenza la deroga è consentita se, per l’istallazione dei servizi essenziali alle esigenze della vita sia necessario, tenendo conto della struttura materiale dell’edificio e delle connessioni tra le varie unità immobiliari, realizzare opere ad una distanza inferiore di quella stabilita dalle norme sulle distanze e l’opera del condomino diventa legittima quando vengono realizzati accorgimenti idonei ad evitare danni alle altre unità immobiliari (Cassazione sentenza 18 febbraio 1977, n. 741).Da un’altra parte anche le norme sulle immissioni trovano applicazione per il condominio, tanto nei rapporti tra i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva, quanto nei rapporti tra le unità immobiliari e le cose, i servizi e gli impianti di uso comune; e quindi, quando un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni, provoca immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condòmini, il conflitto deve essere risolto in base ai criteri prescritti dall’articolo 844 del Codice civile (Cassazione sentenza 15 marzo 1973, n. 250).

La differenza dei rapporti tra fondi vicini e appartamenti vicini

Ma l’articolo 844 è contemplato dal Codice civile per disciplinare situazioni differenti (essenzialmente i rapporti tra i fondi vicini) e nel condominio si mostra inadeguato sia per eccesso che per difetto, perché da un lato la convivenza nell’edificio, tendenzialmente perpetua, in alcuni casi determina la necessità di tollerare propagazioni intollerabili da parte dei proprietari dei fondi vicini, ma dall’altro lato, al contrario, la medesima convivenza porta a considerare non tollerabili le immissioni che invece i proprietari dei fondi vicini sono tenuti a sopportare; e quindi il principio deve essere precisato tenendo conto delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, che consistono nei confini in senso orizzontale e verticale esistenti tra le unità abitative.

La sentenza della Suprema corte ha chiarito che alla base di questa interpretazione evolutiva dell’articolo 844 del Codice civile sta il concetto di “utilità sociale”, a cui fa riferimento l’articolo 42, comma 2, della Costituzione, che raffigura il criterio essenziale per contemperare i conflitti di interessi relativi alle situazioni economiche private, nel senso che, se le disposizioni di natura pubblicistica, contenute nei piani urbanistici, non assegnano all’edificio una specifica destinazione a cui i proprietari si debbono conformare, il criterio per valutare la tollerabilità delle immissioni si deve desumere dalla destinazione assegnata di fatto dai proprietari e che, quando il fabbricato non svolge una funzione uniforme e le unità immobiliari hanno destinazioni differenti (contemporaneamente abitazione ed esercizio commerciale) proprio il criterio della “utilità sociale” consente di graduare le esigenze, in rapporto alle istanze di natura personale ed economica, che dall’ordinamento vengono valutate in modo differente.

Conclusioni

Infatti – conclude la sentenza - all’utilità sociale connessa con il godimento della abitazione, in modo indiretto ed entro certi limiti, si ricollegano numerose norme costituzionali, quali, con riguardo alla tutela della famiglia o della maternità, l’articolo 31, commi 1 e 2, della Costituzione, con riguardo alla inviolabilità del domicilio, l’articolo 14 della Costituzione, con riguardo all’accesso alla proprietà dell’abitazione, l’articolo 47, comma 2, della Costituzione e quindi, in sintesi, la tutela dell’abitazione riassume una serie di istanze fondamentali, alle quali la convivenza si deve adeguare e, pertanto, le esigenze personali connesse all’abitazione (come il riparo, la sicurezza, il lavoro domestico, il riposo, l’intimità familiare, la riservatezza, lo svago, le relazioni sociali, eccetera) sono privilegiate dall’ordinamento rispetto alle utilità solo economiche, che derivano da un esercizio commerciale, le quali di per sé sono lecite e meritevoli di tutela, ma rimangono subordinate alle esigenze abitative, perché una delle regole che razionalizzano l’uso delle unità abitative comprese negli edifici multiplani prevede di non ledere - con attività utili, ma in concreto meno rilevanti sul piano della valutazione normativa e della considerazione diffusa nella comunità - il godimento dell’abitazione dei vicini.

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