Cedolare secca, conti da aggiornare con l’inflazione
L’inflazione può mettere in dubbio la convenienza della cedolare secca sugli affitti? La risposta è stata a lungo scontata: «No». Ora non è più così, con l’indice dei prezzi Istat che ad agosto segna +8,4% su base annua.
Il problema si pone perché, quando si sceglie la tassa piatta, viene «sospesa, per un periodo corrispondente alla durata dell’opzione, la facoltà di chiedere l’aggiornamento del canone» (articolo 3, comma 11, del Dlgs 23/2011). Finché l’inflazione è bassa, al locatore conviene senz’altro rinunciare all’adeguamento Istat e pagare la cedolare del 21% (o 10% per i contratti concordati), anziché aumentare il canone di pochi spiccioli e passare alla tassazione ordinaria (che include l’Irpef ad aliquota marginale, l’addizionale comunale e regionale all’Irpef, l’imposta di registro e il bollo).
Quando il carovita aumenta, invece, i conti vanno rifatti. Tenendo bene a mente, però, le regole che governano l’adeguamento del canone.
Il test di convenienza
Partiamo da un canone mensile di 495 euro, cioè 5.940 euro annui (il dato medio rilevato per i nuovi contratti del 2021 dall’Omi delle Entrate). Immaginiamo di aggiornarlo in base all’inflazione misurata per gli ultimi 12 mesi dall’Istat (luglio 2022-luglio 2021, poiché il dato di agosto è provvisorio): i 5.940 euro diventano 6.403. È quasi una mensilità aggiuntiva, e il rincaro potrebbe mettere in difficoltà molte famiglie di inquilini. Ma al locatore conviene? Parlando di un contratto a canone libero, la situazione è la seguente:
è meglio mantenere la cedolare se il proprietario ha un reddito – comprensivo del canone – oltre i 28mila euro annui, cioè se paga l’Irpef al 35% o al 43%;
se il suo reddito va dai 15mila ai 28mila euro (secondo scaglione, Irpef al 25%), è probabile che gli convenga restare in cedolare, a meno che non abiti in una zona in cui l’addizionale comunale e regionale all’Irpef sono molto leggere. Anche in quest’ultima ipotesi, però, bisogna vedere se il gioco vale la candela: il rischio è mandare in difficoltà l’inquilino (o indurlo ad andarsene) per avere poche decine di euro in più;
se il reddito del locatore è inferiore a 15mila euro, aggiornare il canone può lasciargli da zero a 248 euro di maggiori introiti, a seconda delle addizionali locali.
Abbandonare la cedolare non conviene mai, invece, quando il contratto è a canone concordato, categoria in cui secondo l’Omi ricade il 57% dei nuovi contratti stipulati nel 2021 nei Comuni ad alta tensione abitativa. Per questi contratti, infatti, la cedolare è al 10% e l’adeguamento del canone è al massimo dello 0,75% dell’inflazione.
Come fare l’aggiornamento
Secondo le Entrate, la cedolare può essere revocata in ogni annualità contrattuale successiva a quella in cui è stata scelta, entro il termine per il pagamento dell’imposta di registro annuale (circolare 26/E/2011). Per farlo va mandata una lettera in carta libera all’inquilino e pagata la tassazione ordinaria. La regola vale anche per chi ha scelto la cedolare nel contratto, senza inviare la raccomandata all’inquilino.
Fin qui tutto chiaro. I dubbi riguardano l’adeguamento. La legge dice che la facoltà di aggiornarlo è «sospesa», perciò i commentatori hanno sempre ritenuto che si possa tenere conto dell’inflazione accumulata nel tempo. In pratica – si è detto – se dal 1° luglio 2022 si revoca la cedolare per un contratto siglato il 1° luglio 2020, si potrà adeguare il canone all’inflazione stratificatasi nei 24 mesi precedenti (coefficiente 1,098 secondo l’indice Istat Foi).
La circolare 26/E sembra invece precludere la possibilità di aggiornare il canone fino all’annualità che inizia dal 1° luglio 2023. Il problema non si è mai posto finora, ma sarebbe bene affrontarlo. Anche perché l’adeguamento è questione civilistica, non fiscale, ma è requisito per avere la tassa piatta.
Naturalmente, non può incrementare il canone chi non si è riservato tale facoltà nel contratto.
Il movimento sul mercato
L’impressione è che per il momento non ci siano ancora molti aggiornamenti, anche se l’attenzione sul tema è alta. Confedilizia, ad esempio, conferma tra i propri associati «notevole interesse» e «qualche rara notizia di revoca, in considerazione di contratti liberi e in presenza di detrazioni fiscali considerevoli, come 110% e bonus facciate». È un punto interessante: a voler uscire dalla cedolare, per ora, potrebbero essere soprattutto coloro che non riescono a cedere i crediti d’imposta sui lavori edilizi e hanno bisogno di una maggiore Irpef su cui scaricare i bonus.