Distanze legali, necessario il formarsi del giudicato sulla violazione per applicare la normativa meno stringente
Se l’edificio in contrasto con le prescrizioni in vigore al momento della sua ultimazione è conforme alle nuove indicazioni non deve essere abbattuto
Quello delle distanze legali tra edifici, nonché tra edifici e confini, rappresenta uno dei più ricorrenti motivi di controversia giudiziaria. Il proliferare di sentenze sul tema, nonché la circostanza che si giunga a celebrare tutti e tre i gradi di giudizio prima di arrivare alla soluzione, sono elementi che consentono di capire quanto poco chiaro sia l’argomento fra i consociati. Da qui, l’importanza di soffermarsi a esaminare ogni pronuncia che vada a dirimere la vertenza tra i vicini proprietari di fabbricati e/o terreni.
La sentenza 12061/2023 , emessa dalla seconda sezione civile della Cassazione, si occupa di fare chiarezza sull’avvicendarsi di normative sulle distanze legali, nonché sugli strumenti per la verifica di eventuali abusi.
La vicenda
Il proprietario di una porzione di terreno portava in giudizio il suo confinante, lamentando che questi avesse realizzato un fabbricato situato a distanza di 1,6 metri dal confine, in palese violazione della distanza minima prescritta dal vigente piano regolatore. L’istante promuoveva la propria azione per chiedere la demolizione del manufatto fino al rispetto della distanza legale di 10 metri. Si costituiva in giudizio il presunto autore dell’abuso che, a sua difesa, deduceva come il fabbricato fosse stato costruito in anni antecedenti rispetto al periodo di tempo indicato dall’attore, in luogo di un vecchio manufatto, e solo per sostituire la copertura.
Le pronunce di merito
Il Tribunale accoglieva la domanda attorea sulla base di una Ctu e accertava che il manufatto realizzato dal convenuto fosse completamente diverso (per sagoma) da quello originario. Ne derivava la condanna a eliminare gli ampliamenti del fabbricato. Avverso la sentenza di primo grado, il soccombente proponeva appello, contestando la modalità con cui in sentenza si era proceduto alla determinazione delle parti da demolire. Inoltre, veniva contestato il metodo utilizzato dal Ctu per redigere la perizia. Difatti, a dire dell’appellante, il perito aveva individuato l’aumento di ampiezza delle superfici con una mera sovrapposizione dei rilievi aerofotogrammetrici, tramite una metodologia imprecisa e fallace.
La Corte d’appello respingeva ogni doglianza, sostenendo che le parti da demolire risultavano chiaramente dalla consulenza tecnica d’ufficio all’esito dei rilievi metrici svolti e previa comparazione con i rilievi aerofotogrammetrici. Il soccombente si determinava, dunque, ad agire davanti alla Cassazione, spiegando un ricorso articolato in più motivi.
I motivi del ricorso
Con la prima censura, l’istante sosteneva che, prima del giudizio di appello, il Comune avesse approvato un documento attuativo del piano regolatore, con cui disponeva che le distanze minime tra fabbricati, per le diverse zone territoriali omogenee, erano quelle stabilite dal Codice civile e dal Decreto ministeriale 1444/1968. Alla luce di questa normativa, verrebbe meno il previgente e inderogabile obbligo di distacco delle nuove costruzioni dai confini, dovendosi osservare unicamente l’obbligo della distanza minima tra fabbricati frontistanti. Secondo il ricorrente, dunque, la sua struttura risulterebbe conforme alla nuova e vigente disciplina. Altro motivo di ricorso è la contestazione della modalità con cui la Corte territoriale ha individuato le porzioni di manufatto che dovevano essere oggetto di eliminazione, nonché la conseguente critica ai rilievi aerofotogrammetrici di cui si era avvalso il Ctu . Da ultimo, veniva contestato un vizio di motivazione del provvedimento.
Nuova normativa inapplicabile senza giudicato
Investiti della vicenda, i giudici di Piazza Cavour hanno ravvisato la totale mancanza di pregio delle argomentazioni difensive addotte.Quanto al primo motivo, la Cassazione ha precisato che non vi è dubbio che il sopravvenire di una disciplina normativa meno restrittiva comporti che l’edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non possa più essere ritenuto illegittimo. Il confinante non può pretendere l’abbattimento o la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione. E tuttavia, nel caso di specie, sulla violazione delle distanze non si è formato il giudicato, in quanto la questione relativa alla violazione delle distanze è stata sollevata nell’atto di appello e nel ricorso per Cassazione, a nulla rilevando che la normativa sopravvenuta risalisse a quando era ancora in corso il giudizio d’appello.
Per aree agricole obbligo di costruzione a dieci metri dal confine
La disamina della Cassazione prosegue con la citazione del consolidato principio secondo cui le disposizioni dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori locali, che stabiliscono la disciplina delle distanze delle costruzioni, appartengono alla categoria delle norme integrative (articolo 873 del Codice civile) e hanno valore di norme giuridiche. Ne deriva che spetta al giudice acquisirne conoscenza d’ufficio, anche in riferimento al diritto sopraggiunto in corso di causa. Nel caso di specie, si è ritenuto che non poteva considerarsi una produzione vietata l’allegazione del testo regolamentare di un piano di attuazione di un piano regolatore generale, che avrebbe dovuto essere conosciuto e applicato anche d’ufficio. Ma c’è un problema: la previsione richiamata dal ricorrente non si applica alle zone agricole, per le quali rimane vigente l’obbligo di costruzione a dieci metri dal confine. Basterebbe già questa disamina per capire come il ricorso non avesse possibilità di accoglimento. La Cassazione procede, tuttavia, a esprimersi anche sulle altre censure sottoposte al suo vaglio.
I rilievi aerofotogrammetrici
Ebbene, quanto agli altri motivi di ricorso, i giudici di legittimità osservano che la Corte territoriale aveva fatto puntuale riferimento alla consulenza tecnica che, secondo l’insindacabile accertamento del giudice di merito, conteneva l’esatta indicazione delle parti dell’edificio da rimuovere. I rilievi aerofotogrammetrici, fortemente avversati dal ricorrente, possono costituire uno strumento con cui il consulente può accertare la sagoma di un edificio, non essendovi divieto posto dalla legge all’utilizzo di questa indagine tecnica. Inoltre, all’esito di tali rilievi, il consulente ha proceduto anche alla misurazione effettiva del fabbricato, individuando adeguatamente le parti da demolire. Nonostante il rilievo aerofogrammetrico non sia incontrovertibile (essendo in genere formato non da un pubblico ufficiale ma da un operatore privato) e pur riconoscendo che la sua attendibilità può essere condizionata da una molteplicità di fattori tecnologici (come la maggiore o minore risoluzione o fattori ambientali), la parte che intende disconoscerne l’efficacia probatoria deve fornire elementi concreti in senso contrario. Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato a censurare in modo generico la valenza probatoria dei rilievi aerofotogrammetrici, senza indicare le ragioni della loro concreta inattendibilità.
Il verdetto della Cassazione
Quanto infine alle censure relative al vizio di motivazione, ad avviso degli ermellini la motivazione della sentenza d’appello consente di cogliere perfettamente l’iter logico seguito dal giudice che, nel valutare le risultanze istruttorie, non è tenuto a dar conto in motivazione dei singoli elementi di prova.Alla luce della puntuale disamina, il ricorso non merita accoglimento.