Condominio

Conflitto di interessi, può ravvisarsi in capo all’amministratore solo se esprime voti in assemblea

Se fosse anche un condomino, rischierebbe di influenzare gli altri votanti, orientandone o viziandone le scelte

di Ivana Consolo

Che cos’è il conflitto di interessi in condominio? E quando lo si può effettivamente ravvisare? Per dare compiuta e corretta risposta a queste due domande, è utile porre subito alcuni punti fermi.

Il conflitto d’interessi in condominio

In condominio, si parla di conflitto di interessi ogni volta che, potenzialmente o effettivamente, un condòmino o l’amministratore si trovino in una situazione conflittuale relativamente alla gestione della cosa comune. La casistica è ampia. Se pensiamo alla posizione del condòmino, una situazione di conflittualità potrebbe palesarsi nel momento in cui l’assemblea (a cui il condòmino partecipa e in seno alla quale esprime un voto) deve deliberare se agire giudizialmente contro di lui o meno. Nel caso dell’amministratore di condominio, qualora sia anche un condòmino, le ipotesi di conflitto possono essere molteplici: basti pensare al caso in cui si debba decidere sulla sua revoca.

Quello che, tuttavia, maggiormente rileva è che, nel caso dell’amministratore, affinché si possa ragionare di ipotesi di conflitto di interessi, è necessario ascrivere un duplice ruolo in capo allo stesso soggetto. In buona sostanza, deve trattarsi di un condòmino che ricopre anche il ruolo di amministratore. Ed è proprio questo l’aspetto evidenziato nell’ordinanza 12377/2023 della Cassazione , estremamente semplice ma altrettanto chiara ed esaustiva.

La vicenda

Un partecipante alla compagine condominiale impugnava una delibera di assemblea nella parte in cui si era deciso di procedere all’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria della pavimentazione e della rete fognaria del fabbricato affidandoli a una determinata società, di cui l’amministratore di condominio era anche socio e amministratore unico. Il condòmino, dunque, decideva di adire l’autorità giudiziaria per fare valere un conflitto di interessi. In primo grado, il Tribunale prendeva atto che la deliberazione fosse stata revocata dall’assemblea nel corso del giudizio e dichiarava la cessazione della materia del contendere. C’è da dire che il modo in cui venivano regolate le spese di giudizio - poste a carico del condominio in ossequio al principio della soccombenza virtuale - lasciava chiaramente intendere che per il giudice il conflitto di interessi fosse comunque ravvisabile.

Successivamente veniva proposto appello sul capo della sentenza riguardante le spese. La Corte d’appello di Milano, investita della vicenda, riformava la decisione impugnata condannando al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio il condòmino attore. Questa decisione dipendeva da una valutazione precisa. In sostanza, secondo la Corte meneghina, la qualità di socio e amministratore unico della società aggiudicataria rivestita dall’amministratore di condominio non era stata causa di invalidità della delibera, non risultando nemmeno allegato che questi avesse indotto in un qualche errore l’assemblea, viziandone così la volontà. Il condòmino soccombente decideva, quindi, di avviare il terzo grado di giudizio, facendo arrivare la controversia ai giudici di Piazza Cavour.

Il ricorso in Cassazione

Il ricorso che il condòmino sottoponeva al vaglio della Suprema corte si fondava su due censure:

1)  La Corte d’appello, per stabilire quale fosse la parte soccombente, aveva ritenuto irrilevante il fatto che l’assemblea avesse successivamente revocato la delibera impugnata;

2) I giudici di secondo grado non avevano minimamente considerato che la delibera fosse stata adottata in una situazione di conflitto di interessi tra condominio e amministratore. Quest’ultimo, essendo socio e amministratore unico della società aggiudicataria dei lavori, era chiaramente portatore di un interesse personale in conflitto con quello condominiale.

Influenza inesistente se l’amministratore non è anche condòmino

Ad avviso degli ermellini, entrambi i motivi erano infondati. La Corte d’appello aveva esaminato la delibera di revoca, precisando che, non essendo ravvisabili le ragioni che avevano condotto all’adozione della stessa, non potevano trarsi elementi univoci di riconoscimento della fondatezza delle ragioni del ricorrente. Questa conclusione era esente da censure e, esplicitandosi in un apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità. Anche la seconda doglianza mossa dal ricorrente era priva di pregio, in quanto il conflitto di interessi che la legge (a determinate condizioni) prende in considerazione come causa di annullamento di una delibera assembleare, è quello rinvenibile tra coloro che, partecipando al voto, concorrono alla formazione della volontà collettiva.

Laddove l’amministratore di condominio presenzia ma non partecipa all’assemblea (e non ha dunque diritto di voto), l’influenza che esercita sui votanti al fine di orientarne (o viziarne) le scelte è praticamente inesistente. Ne deriva che, solo nell’ipotesi in cui l’amministratore fosse stato anche condòmino, sarebbe stato possibile ragionare di un conflitto di interessi. Questa circostanza non è emersa in giudizio e non è stata neppure addotta nel ricorso, che dunque è stato rigettato.

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