I martedì del diritto: l’amministratore può agire per la tutela della cosa comune anche senza l’ok assembleare
In caso di abuso da parte di un condomino, deve predisporre gli atti idonei per limitarne la recidività
Dalla Rivista «L’amministratore» di Anaci, sede provinciale di Milano, il commento alla sentenza della Cassazione 23823 del primo agosto 2022.
All’amministratore spettano gestione e custodia della cosa comune
L’amministratore del condominio ha il compito di provvedere non solo alla gestione delle cose comuni ma anche alla custodia di esse, col conseguente obbligo di vigilare affinché non rechino danni a terzi o agli stessi condòmini. Dunque, quando oggetto della lite sia l’abuso della cosa comune da parte di uno dei condòmini, deve riconoscersi all’amministratore il potere di agire in giudizio, al fine di costringere il soggetto inadempiente all’osservanza dei limiti fissati dall’articolo 1102 del Codice civile. In tale ipotesi, l’interesse, di cui l’amministratore domanda la tutela, è un interesse comune perché riguarda la disciplina dell’uso di un bene comune, il cui godimento limitato da parte di ciascun partecipante assicura il miglior godimento di tutti.
I fatti di causa
La denuncia dell’abuso della cosa comune da parte di un condomino rientra, pertanto, tra gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell’edificio che spetta di compiere all’amministratore, ai sensi dell’articolo 1130, numero 4, del Codice civile, senza alcuna necessità di autorizzazione dell’assemblea dei condòmini. Anche in questo caso la massima può indurre a considerare affermati principii non del tutto sovrapponibili al decisum della sentenza del giudice di legittimità, che si è dovuto occupare di un allacciamento abusivo al servizio di distribuzione dell'acqua potabile. L'allacciamento esisteva e a quanto appare dalla sentenza ne usufruivano sostanzialmente tutti i condòmini. L'azienda distributrice aveva quindi agito per il pagamento di quanto consumato e aveva chiesto la condanna del condominio, che si era difeso sostenendo che l'amministratore fosse ignaro della situazione. Inoltre, andava negata la legittimazione passiva del condominio, dato che l'amministratore “giammai” potrebbe vietare ai condòmini di utilizzare le condutture idriche condominiali e quindi non fosse in condizione di far cessare l'illecito.
Il parere della Cassazione
La Corte d'Appello di Napoli aveva accolto l'argomento, suscitando la comprensibile reazione della Corte suprema, che ha così ricostruito l'iter argomentativo della corte territoriale: «La Corte d’appello, pur riconoscendo l’esistenza di un allaccio abusivo del fabbricato alla condotta idrica dell’ XX XX attraverso un’unica montante idrica, di proprietà condominiale, unitamente alle sue diramazioni fino alle singole unità immobiliari e la consapevolezza dell’amministratore dell’illecita fruizione dell’acqua da parte dei singoli condòmini conclude affermando che non ravvisa alcun referente normativo che consenta di fondare una responsabilità del condominio per illecita apprensione di acqua posta in essere dei singoli condomini. E solo nei confronti di questi ultimi l’ XXX XXX avrebbe dovuto indirizzare le proprie istanze».
Il condominio deve rispondere dei danni
Ebbene tale motivazione non è condivisibile. Non sorprende che la Corte suprema abbia affermato il dovere dell'amministratore di compiere gli atti idonei ad evitare il perpetuarsi dell’illecito permanente consumato, in modo determinante, attraverso l’impianto condominiale. Si è pervenuti , quindi, alla condanna del condominio, chiamato a rispondere dei danni cagionati per non aver improntato la propria condotta al suo dovere ed avendo così determinato danno ingiusto. Si deve soltanto aggiungere che, probabilmente, la massima che è stata sopra riportata enfatizza il significato della pronuncia, volta a stabilire che l'impianto comune non può essere utilizzato per godere di allacciamenti non autorizzati.
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di Carlo Pikler - Centro studi privacy and legal advice