Incendi, la sicurezza nei condomìni va rivista con un’ottica aziendale. Parla il comandante Barberi che gestì l'Expo a Milano e il crollo del ponte Morandi
I numerosi casi recenti, anche gravi e gravissimi, dimostrano una carenza di impostazione, di organizzazione, di impianti, talora di struttura
Alla fine del 2022, l’ingegner Silvano Barberi, alto funzionario dei Vigili del Fuoco, arrivato al termine della carriera, è tornato alla vita privata, in piena pandemia e dopo aver diretto il Comando di Milano durante l’Expo 2015 e le operazioni di soccorso dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova. La prevenzione incendi è un settore vastissimo: le attività soggette al controllo dei Vigili del Fuoco sono ben 80: dalle industrie chimiche agli ospedali, dagli alberghi ai condomìni, dai supermercati agli stabilimenti più complessi, dalle scuole ai reattori nucleari. Ecco le sue interessanti considerazioni su molti aspetti pratici.
Le norme di prevenzione incendi sono in continua evoluzione. Quali sono stati i momenti della svolta? Con quali conseguenze pratiche?
L'adozione del cosiddetto “codice” di prevenzione incendi e l'introduzione delle nuove procedure hanno modificato sostanzialmente l'approccio alla sicurezza antincendio, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra Amministrazione, titolari delle attività e professionisti.
È un percorso lungo ma continuo, che ha mosso i primi passi con il Dpr 577 del 1982 con la prospettiva di ulteriori importanti modificazioni che chiuderanno il cerchio di questa evoluzione.
Ricordiamo, sinteticamente, che la sicurezza antincendi ha progressivamente percorso una strada di coerenza: in una prima fase si è avuto un forte dualismo nell'approccio, mera applicazione di regole per le cosiddette attività normate e totale assenza di indicazioni per l'applicazione dei “criteri generali” di prevenzione e protezione per le attività non normate: la maggioranza di quelle soggette. I progetti in tale secondo caso venivano “concordati” in un confronto tecnico presso i Comandi dei vigili del fuoco e da questi approvati, con il “vantaggio” di spostare sull'Amministrazione la responsabilità delle scelte ed il “rischio” della disuniformità di visione tra realtà territoriali ed anche all'interno di esse.
La seconda fase ha cercato di eliminare la soggettività con l'obiettivo di “normare tutto”, ne è scaturita una grande produzione di norme verticali che, seppure formulate in tempi successivi, hanno riproposto approcci, soluzioni e valori dimensionali nati tra gli anni '50 e gli anni '80 del secolo scorso.
Ne è derivato un'ingessatura dell'attività professionale, progressivamente orientata alla “certificazione” attraverso il meccanismo della abilitazione, i famosi “elenchi” della L. 818 del 1984.
Tanto la prima quanto la seconda fase non devono essere viste come un lungo periodo buio della sicurezza antincendi che, anzi, è progressivamente cresciuta nella consapevolezza del mondo professionale, produttivo ed anche civile, grazie ad un rapporto qualificato e leale tra Professionisti ed Amministrazione e ad una imponente attività di formazione e di confronto anche interprofessionale.
L'idea che il progetto antincendio possa e debba essere il risultato di una attività professionale “guidata” ha portato alla stesura del “codice” ed a trasformare definitivamente l'attività del Professionista dalla proposta alla asseverazione.È un cambiamento di passo che, ripeto, sta per essere concluso.
Cosa cambia nella pratica? Molto, moltissimo. Piaccia o no. Il Professionista cresce nel ruolo e nella responsabilità, il confronto sul singolo progetto si affievolisce (ma si mantiene il dialogo tra Amministrazione e Categorie Professionali), il controllo assume più decisamente il carattere ispettivo, come in altri settori avviene già da tempo.
Le è mai capitato di imbattersi in norme sbagliate o talmente rigorose da risultare in pratica inapplicabili?
Sì, certo, è la principale accusa mossa all'approccio prescrittivo delle cosiddette norme verticali. Il problema non sta tanto nel principio che si cerca di trasferire nella norma, ma nel fatto che una norma pensata su una attività-tipo non potrà mai essere adatta per tutte le situazioni che ne prevedono l'applicazione. Ne consegue che in certi casi l'obbligo prevale sulla valutazione tecnica ed il Professionista attua misure obiettivamente prive di risultato o, quando non ci riesce, ricorre all'istituto della deroga proponendo, magari, misure compensative altrettanto insignificanti. Ecco, l'approccio del codice mira ad eliminare tali situazioni. Non dico che ci sia riuscito appieno, ma certamente ha cambiato di molto le cose.
Nell'ambito degli edifici destinati a un uso civile ritiene che le norme di prevenzione possano essere migliorate?
È un quesito delicato, che si presta ad approcci differenti. Mi limiterò a dare due spunti. Sul piano tecnico-normativo, la sicurezza nei condomini dovrebbe essere rivista con un'ottica “aziendale”, i numerosi casi anche gravi e gravissimi dimostrano una carenza di impostazione, di organizzazione, di impianti, talora di struttura. Le pare coerente che in un ufficio di trenta persone, che operano in stato di vigilanza, vi sia un piano di emergenza, si prescrivano impianti di rilevazione e di allarme e si svolgano periodiche prove di evacuazione, mentre in un condominio di cento unità abitative, con occupanti in tutte le condizioni immaginabili, impianti di riscaldamento e cottura a gas ed apparecchi di ogni tipo, non vi sia la minima predisposizione per prevenire, informare, proteggere se non la conformità originaria degli impianti e, solo per i fabbricati più recenti, la protezione passiva delle scale?
Ci rendiamo conto di cosa comporta, come conseguenza, l'incendio anche di una sola unità all'interno di un condominio? L'altro aspetto, non disgiunto dal primo, riguarda l'approccio al cosiddetto “adeguamento” delle attività realizzate in tempi diversi, quando concetti oggi correnti, come la conformità, la qualità, la standardizzazione, la certificazione non erano maturi e diffusi come oggi. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che la regola dell'arte è nata prima delle circolari ministeriali e che in ogni tempo le costruzioni e gli impianti sono stati costruiti seguendo criteri di sicurezza e di buona qualità, in relazione all'epoca di realizzazione. L'idea di “riqualificare” una realtà costruttiva pensando di riportare all'attuale il livello di sicurezza mediante interventi parziali di aggiornamento presenta nella pratica le difficoltà e le contraddizioni che vediamo ogni giorno.
Nell'ambito del condominio, l'approccio attuale all'adeguamento vedrà magari installare porte tagliafuoco nell'autorimessa per proteggere una cantinola o il locale dei contatori, installare contropareti in cartongesso per poter avere una certificazione, smussare un angolo per recuperare il deficit di due centimetri su un passaggio ed i condomini si sentiranno sollevati perché saranno stati informati dall'Amministratore che il fascicolo è stato aggiornato con la presentazione della Scia, sanando così l'errore di aver lasciato scadere il vecchio CPI. In compenso, il palazzo continuerà ad avere la sua unica scala aperta, con porte di accesso alle unità in legno leggero o al più qualche portoncino blindato, privo di caratteristiche di tenuta dei gas di combustione, i condomini continueranno a non avere alcuna consapevolezza dei rischi presenti nel fabbricato ed alcuna informazione sul da farsi in caso di un evento di emergenza. Emergenza della quale, si intende, dovranno accorgersi spontaneamente o, se saranno fortunati, perché qualcuno busserà alla porta o suonerà il campanello. La mia impressione è che il principio della “valutazione del rischio” introdotto alla fine dello scorso millennio dalla disciplina sulla sicurezza del lavoro potrebbe avere applicazioni efficacissime proprio nel campo della civile abitazione. Intendiamoci, sto parlando di un approccio serio e “ingegneristico”, non di nuove formalità e di documenti preconfezionati da firmare e custodire nei cassetti…
Autorimesse costruite negli anni ’50-’60-’70 con comunicazioni dirette (mediante filtri) con le scale degli edifici soprastanti. Dette comunicazioni sono quasi sempre vie di fuga dall’autorimessa per cui le porte devono essere apribili a semplice spinta: situazione idonea per la prevenzione incendi ma assolutamente negativa per l’antintrusione. Conclusione: le porte vengono quasi sempre chiuse a chiave, a danno della prevenzione incendi. In tali situazioni Safety and Security sono quindi in pieno contrasto tra loro e non risulta che vi siano dispositivi antintrusione omologati dal competente Ministero da inserire sulle porte delle vie di fuga. È un problema che riguarda migliaia di condominii nella sola Milano. È possibile ipotizzare una soluzione?
Come ha ben detto, è un classico conflitto tra safety e security. Potremmo chiederci se è preferibile il rischio, anche piuttosto remoto, di trovarsi bloccati in una autorimessa piena di fumo o quello - più probabile? - di trovare qualche persona indesiderata sulle scale di casa. Io avrei una risposta, sarà di parte, ma forse non sarei il solo. La questione è stata affrontata più volte, proprio a Milano, attraverso procedure di deroga che solo in pochi casi sono state ritenute convincenti. Come abbiamo già detto, il principio generale è che chi deve scappare non possa fermarsi a cercare chiavi, digitare codici e così via, è un principio condivisibile. È anche vero che chi è esperto dei luoghi è agevolato, ma possiamo essere certi che la reazione emotiva non giochi brutti scherzi? Il mio parere è che gli accrocchi non siano una buona soluzione. Se la comunicazione con le scale è via di fuga, deve essere percorribile fino a luogo sicuro, se non è via di fuga può avere la serratura, dipende dalla conformazione dei luoghi. Se è via di fuga, la protezione dalle intrusioni va ricercata attraverso altri strumenti, ad esempio sull'ingresso dell'autorimessa, sull'accesso alle scale, con telecamere, avvisatori, porte delle abitazioni, …
Norme a parte, secondo lei il corpo dei vigili del fuoco è dotato dei mezzi più idonei ed efficaci per combattere le varie categorie di incendi?
No, perché per alcune tipologie e caratteristiche di incendi servirebbero mezzi che sono ancora nella fantasia. Di fronte alla molteplicità degli scenari che si verificano e che si possono prevedere dobbiamo riconoscere che ci sono aree in cui gli strumenti resi disponibili dalla tecnologia sono sproporzionati rispetto alla dimensione ed alle caratteristiche degli eventi. Però posso affermare che il Corpo è dotato di tutte le tipologie di mezzi che l'industria rende disponibili oggi nel mercato internazionale e che tali mezzi sono distribuiti nel territorio in modo da risolvere tempestivamente ed efficacemente quel milione scarso di situazioni “ordinarie” che ogni anno richiedono il suo intervento. Allo stesso modo, il meccanismo di mobilitazione territoriale e nazionale consente di far convergere risorse laddove eventi straordinari non possono essere risolti con le sole forze locali. Quanto ai numeri ed alle condizioni del parco veicoli, l'aggiornamento tecnologico è legato agli avvicendamenti ed ai potenziamenti, a loro volta legati agli stanziamenti. È la solita questione di equilibrio tra desideri e disponibilità.
In base alle condizioni di fatto (uomini e mezzi) cosa dovrebbe fare di più lo Stato, per potenziare le risorse del Corpo, sia nell'ambito della prevenzione sia in quello dei soccorsi?
La risposta più semplice e scontata è: aumentare i finanziamenti. Tuttavia, non condivido appieno tale affermazione e cercherò in breve di spiegare questo parziale dissenso. Già in questi ultimi anni, infatti, possiamo dire che i livelli di finanziamento sono stati fortemente accresciuti, con la definizione di piani pluriennali di investimento in grado di sostenere importanti programmi di acquisto di beni strumentali. Inoltre, il Pnrr ha dato oggi un'altra spinta epocale per un ammodernamento tecnologico del Corpo. Se ancora, per ipotesi, immaginassimo di avere a disposizione risorse illimitate, si renderebbero ancora più evidenti i limiti strutturali di una Organizzazione pubblica – che non a caso si chiama Corpo – chiamata a fornire ogni giorno risposte immediate ed efficienti ai vecchi ed agli emergenti rischi, partendo dalla prevenzione ed arrivando fino al soccorso. Quando si parla di struttura ci si riferisce comunemente agli organici di personale, elemento che anche per il Corpo è rilevante e grave, soprattutto nei ruoli di responsabilità e nelle competenze specialistiche. Ma sul Corpo dei vigili del fuoco pesano anche aspetti di struttura organizzativa più profonda.
Chiaramente non è questa la sede che consenta di analizzare nel dettaglio le problematiche, pertanto vorrei sintetizzare la risposta cosi: per poter migliorare la qualità dei servizi resi dal Corpo, lo Stato dovrebbe metterlo nelle condizioni di allungare il proprio sguardo, di poter progettare e programmare oggi il proprio futuro, selezionare, formare, valorizzare persone in grado di comprendere l'evoluzione delle esigenze sociali e delle soluzioni tecnologiche, per mettere a punto strategie e piani capaci di affrontare i nuovi rischi. In altri termini, di esercitare davvero e nel profondo, dallo studio al cantiere, quella funzione ingegneristica ed organizzativa che lo caratterizza.
Le risulta che la burocrazia sia frequentemente un ostacolo all'adozione di provvedimenti migliorativi? Le è capitato che essa abbia bloccato iniziative che avrebbe voluto vedere realizzate con il suo contributo?
Cerchiamo di capirci sui termini, parliamo della burocrazia come di una forma eccessiva e pedante, deviata, dell'amministrazione, che pare dissociarsi dalla propria funzione solo per dimostrare il proprio potere. È l'espressione estrema, certamente esiste, quanto frequentemente non saprei dire, talora sono proprio gli oppositori dei progetti che la vanno a cercare come alleata. Poi c'è l'insieme delle regole, delle norme e delle procedure, cui spesso mettiamo l'etichetta dispregiativa di burocrazia, che però contengono tutti gli obiettivi di garanzia, di legalità, di trasparenza, di concorrenza, di tutela che proprio il cittadino richiede al Legislatore. Le regole degli appalti ne sono un esempio chiaro, da un lato chiediamo celerità e snellezza, dall'altro pretendiamo garanzie, compresa quella di poter eccepire e ricorrere ogni volta che ne vediamo la necessità o anche solo la convenienza. Potremo dire, senza necessità di commenti ed esempi, che la complicazione delle procedure è inversamente proporzionale alla fiducia concessa al cittadino-utente. Detto questo, posso affermare che in molte occasioni le procedure hanno rallentato anche sensibilmente, rispetto alle mie attese, la realizzazione di mie iniziative, penso in particolare agli appalti. Non ricordo, invece, casi in cui la burocrazia vera e propria abbia definitivamente bloccato un progetto.