Le vedute devono rispettare le distanze legali anche se dannosul sul cortile comune
La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 26807 del 21 ottobre 2019 , si è occupata del problema relativo all'apertura di vedute o prospetti sul cortile comune a due edifici di proprietà esclusiva, offrendo anche l'occasione per sintetizzare alcune questioni in materia di diritti reali.
È meglio cominciare esplicitando le presupposte distinzioni disciplinari tra vedute (o prospetti) e luci. Appartengono alla prima categoria le aperture sull'altrui fondo finitimo che «permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente», mentre sono semplici luci le aperture che, pur finalizzate a fornire aria e luce all'immobile in cui sono praticate, non permettono di affacciarsi (cfr. art. 900 c.c.).
Le luci, poi, si distinguono in regolari o irregolari a seconda del grado di sicurezza che offrono al fondo del vicino: l'art. 901 c.c., sul punto, prescrive la necessità di un'inferriata a maglie strette e una certa altezza, sia esternamente che internamente. Sono regolari, e come tali liberamente praticabili dal proprietario esclusivo del muro, le luci che rispettano tali requisiti; viceversa sono irregolari quelle che non li rispettano, permettendo al proprietario del fondo su cui affacciano di chiederne la regolarizzazione, ma non l'accecamento, salvo in caso di costruzione in appoggio o di comunione forzosa (artt. 902, co. 2 e 904 c.c.) e purché non emulatorie .
Le luci irregolari possono tuttavia essere oggetto di un diritto personale o reale di godimento (servitù), la cui costituzione inibisce perciò la richiesta di regolarizzazione così come l'accecamento, anche nei casi normativamente consentiti.
Stante la conformazione in termini di diritto riconosciuto direttamente dalla legge (almeno per quelle regolari, infatti, si parla di «diritto legale di vicinato») , si ritiene che le luci non possano acquistarsi per usucapione, mancando – pure in quelle irregolari – il requisito dell'apparenza.
Discorso diverso vale per le vedute (o prospetti) , caratterizzate oltre che dal requisito della inspectio anche dalla possibilità di affacciarsi (c.d. «prospectio»), con evidente emersione del pericolo per la sicurezza e la riservatezza del vicino. Di tale rischio tiene conto il legislatore, il quale prescrive una distanza legale minima (priva, ormai, dell'originaria connotazione anche urbanistica), seppur variamente articolata, tra la veduta e il fondo finitimo altrui (art. 905 c.c.).
Se rispettose delle distanze legali, le vedute possono essere liberamente aperte e mantenute; ove vìolino invece le prescrizioni di cui all'art. 905 c.c. esse legittimano il proprietario del fondo a richiederne la rimessione in pristino o la regolarizzazione – con preferenza per quest'ultimo rimedio in applicazione del principio di proporzionalità – sia con strumenti petitori, quale l'actio negatoria servitutis (art. 949 c.c.), che possessori: l'azione di manutenzione (art. 1170 c.c.).
È però possibile che la veduta a distanza inferiore da quella legale sia oggetto di apposita servitù prediale volontaria, da costituirsi con atto scritto ad substantiam ex art. 1350 c.c., con cui, in sostanza, il proprietario del fondo servente rinuncia a pretendere l'osservanza delle distanze legali.
Quest'ultima è la fattispecie affrontata dalla sentenza in commento, ma con due non trascurabili particolarità. In primo luogo, il fondo su cui la veduta veniva aperta (tramite alcuni interventi sulla falda del tetto dell'edificio sullo stesso prospiciente) era un cortile in comunione (ai proprietari, qui esclusivi, dei due edifici che vi si affacciavano); così come in comproprietà, ma diversamente composta, era una delle due costruzioni.
Nella specie, poi, alla stipula del contratto, con cui i proprietari degli stabili si concedevano reciprocamente la possibilità di modificare (innalzandole, entro i limiti del colmo preesistente) le falde dei tetti, partecipava soltanto uno dei due titolari dell'edificio in comproprietà.
Riguardo quest'ultimo punto, osserva la sentenza in esame come il contratto così concluso non possa considerarsi come se non esistesse,in applicazione, cioè, del solo primo comma dell'art. 1059 c.c., posto che la norma al comma successivo obbliga comunque il singolo concedente la servitù (nonché i suoi eredi e aventi causa: il che pare indice sintomatico della realità del vincolo) a non porre impedimento al suo esercizio.
Circa la contitolarità del cortile, inoltre, emerge il problema della (super)condominialità di cui all'art. 1117-bis c.c., posto che per giurisprudenza ormai pacifica il supercondominio, al pari del condominio, si costituisce ipso iure et facto, senza cioè necessità di alcuna manifestazione di volontà dei proprietari e (almeno dal tenore letterale della disposizione) a prescindere che i singoli edifici siano a loro volta condominii . Invero, è sufficiente che i proprietari degli edifici di proprietà esclusiva siano comproprietari di beni strutturalmente e funzionalmente collegati alle proprietà solitarie. Nel caso di specie, comunque, la condominialità veniva esclusa dai giudici di merito, il che sembra consolidare quella tendenza giurisprudenziale a riconoscere con maggior favore l'esistenza di un supercondominio allorché gli stabili siano già di per sécondomìni .
La questione non è di poco momento.
Secondo un primo orientamento, quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manchi una disciplina regolamentare ad hoc «il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all'art. 1102, comma 1, c.c.», disposizione che limita il godimento delle cose comuni soltanto ove ne risulti alterata la destinazione o impedito il pari uso agli altri comunisti. Situazioni che, almeno sul piano della funzione di dare aria e luce agli stabili, sembrano difficilmente verificabili in questi casi. Inoltre, sempre secondo questa linea di pensiero osterebbe all'applicabilità dell'art. 905 c.c., per impossibilità di ritenere sussistente una servitù, il principio «nemini res sua servit», in base al quale è necessaria l'alterità soggettiva tra i titolari dei fondi servente e dominante che in caso di parziale identità dei proprietari sarebbe mancante (come accennato, nel caso al vaglio dei giudici i proprietari degli immobili in proprietà esclusiva erano al contempo comproprietari del cortile).
Ambedue gli argomenti sono ritenuti privi di pregio dal Collegio, il quale invece ha ritenuto preferibile dare continuità ad un diverso indirizzo .
Si osserva, anzitutto, come non possa porsi un problema di servitù su cosa propria, essendo l'alterità soggettiva garantita dalla parziale diversità dei proprietari del cortile . Inoltre, nei casi in cui sia accertata l'inapplicabilità della disciplina condominiale «l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c.», non potendo, cioè, il comunista creare liberamente prospetti a vantaggio del proprio immobile «finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c.»: l'ambito applicativo di tale disposizione, infatti, sarebbe da circoscrivere ai «rapporti tra proprietà contigue od asservite», non già a quelli «tra proprietà individuali e beni comuni finitimi» (p. 16) .
Complessivamente considerata, tuttavia, la ratio decidendi stimola il seguente interrogativo: il contrasto cui si è accennato, più che integralmente superato aderendo alla seconda delle tesi richiamate, può dirsi in realtà soltanto “composto” nell'individuazione di un ulteriore tratto distintivo tra la normativa condominiale e la comunione ordinaria? Può dirsi, cioè, in caso di cortile condominiale, ancora valido il secondo argomento della tesi che nega l'applicabilità dell'art. 905 c.c. e risolve la questione ex art. 1102 c.c., tornandosi ad applicare la regola generale in tema di distanze legali solo per le vedute sui cortili in comunione ordinaria?
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