Condominio

Usare il cortile per i condòmini non è una «servitù»

di Valeria Sibilio

Ogni condòmino può servirsi della cosa comune, a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca ad altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto. Lo ha chiarito la Cassazione con l'ordinanza 19550 del 2018, nella quale ha esaminato il ricorso proposto dai proprietari di una unità immobiliare contro la sentenza n. 314/2014 della Corte d'Appello, la quale aveva respinto le domande da loro proposte volte a far dichiarare l'inesistenza di qualsiasi servitù o diritto di passaggio a favore della proprietà di due altrettanti condòmini sull'area comune destinata a verde, compresa nel mappale del complesso immobiliare. I ricorrenti avevano dedotto il transito illegittimo degli attori, con autovetture, per tale area verde, per accedere al giardino di loro proprietà esclusiva. La Corte d'Appello aveva concluso che l'utilizzo del cortile comune a scopo di transito da parte degli appellanti fosse compatibile con l'uso di fatto dello spazio a piazzola di parcheggio degli autoveicoli dei condòmini, come accertato dalla perizia. L'accesso carrabile all'area comune dalla proprietà degli appellanti risultava realizzato contemporaneamente alla costruzione del complesso, per cui non poteva ritenersi violata la destinazione dell'area comune.
Nel primo motivo di ricorso i ricorrenti deducevano l'omesso esame di un fatto decisivo, in quanto, come emergerebbe dai loro atti di acquisto e dalla scheda catastale, l'area comune, oggetto della causa, sarebbe destinata a verde ed a passaggio pedonale. Rispetto a tale destinazione, la Corte d'Appello avrebbe, per contro, dato rilievo all'uso di fatto a parcheggio del cortile, comunque inidoneo a mutare la destinazione ad area verde impressa nei titoli di acquisto e nella scheda catastale. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1102 c.c., erroneamente applicato dalla Corte di Secondo Grado, dovendo, la vicenda, essere regolata come azione negatoria del vincolo di transito carrabile posto in essere dai convenuti sulla proprietà comune. Nel terzo motivo, per i ricorrenti, la Corte d'Appello avrebbe tenuto conto non della destinazione contrattuale del cortile, come si evincerebbe dai titoli di acquisto e dalla scheda catastale, ma il suo uso di fatto a parcheggio.
La Cassazione, vista la loro connessione, ha esaminato i tre motivi di ricorso congiuntamente, giudicandoli infondati.
Per gli ermellini, non essendo in discussione l'appartenenza dell'area tra le parti presuntivamente comuni del condominio - essendo inclusa nel termine “cortile”, nella quale rientra ogni area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ivi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate del fabbricato, quali, appunto, gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – l'uso di tale bene, da parte dei convenuti ed attuali controricorrenti, deve trovare regolamentazione nella disciplina del condominio di edifici, la quale è costruita sulla base di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati, contrassegnati dal carattere della reciprocità, che escludono la possibilità di fare ricorso alla disciplina in tema di servitù, presupponente, invece, fondi appartenenti a proprietari diversi, nettamente separati, uno al servizio dell'altro.
Non si può, inoltre, ipotizzare, come risulta nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, un'azione negatoria ex art. 949 c.c. per la cessazione delle molestie attribuite ai controricorrenti, i quali transitano con automezzi nel cortile, in quanto la qualità di condòmini riconosciuta in capo a quest'ultimi deve essere regolata, come fatto dalla Corte d'Appello, sulla base dell'art. 1102 c.c., norma avente per oggetto l'uso legittimo delle cose comuni. Ai sensi dell'art. 1102, comma 1, c.c. l'uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è consentito in conformità alla destinazione della cosa stessa, considerata non già in astratto, con esclusivo riguardo alla sua consistenza, bensì con riguardo alla complessiva entità delle singole proprietà individuali cui la cosa comune è funzionalizzata. Ciascun condomino ha, così, diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest'ultimi. In particolare, per stabilire se l'uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all'uso concreto fatto della cosa dagli altri condòmini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. L'uso deve ritenersi, in ogni caso, consentito, se l'utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall'uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene. La Corte d'Appello, in conformità a tali principi, ha accertato che l'utilizzo dell'area comune a scopo di transito veicolare fosse compatibile con l'uso ad essa impresso, come risultante dalla perizia, di parcheggio di autoveicoli, esistendo, del resto, l'accesso carrabile dalla proprietà sin dal momento di costruzione del complesso immobiliare.
Anche la motivazione per la quale non sarebbe stata considerata la destinazione d'uso ad area verde ed a passaggio pedonale che le ricorrenti hanno tratto dal contenuto dei loro atti di acquisto e dalla scheda catastale, non trova fondamento. Il vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per come riformulato dall'art. 54 del d.l. m. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, deve riguardare un fatto storico, principale o secondario, che abbia carattere decisivo e che non può concernere elementi istruttori inerenti a fatti storici che siano stati comunque presi in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. L'esame dei contenuti dei singoli titoli di acquisto delle ricorrenti e della scheda catastale non rivelano decisività, in quanto le destinazioni ivi indicate non sono in grado di condizionare il giudizio. Eventuali limiti restrittivi alla destinazione funzionale di una parte comune possono discendere o da un regolamento condominiale approvato dall'assemblea a maggioranza, che ne determini le modalità di godimento, o da una successiva deliberazione assembleare, adottata con le necessarie maggioranze, che innovi l'originaria destinazione, per soddisfare esigenze di interesse condominiale, ovvero per finalità di miglioramento, o di maggiore comodità o rendimento. Oppure, ove si intenda restringere il godimento ad una soltanto delle possibili forme d'uso di cui il bene sia suscettibile secondo la sua destinazione, mediante una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari predisposta dall'unico originario proprietario dell'edificio ed accettata con i singoli atti di acquisto, ovvero approvata in assemblea con il consenso unanime di tutti i condòmini.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando le ricorrenti a rimborsare, ai controricorrenti, le spese sostenute nel giudizio, liquidate in euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge, oltre al versamento dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

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