Dividere le parti comuni? All’unanimità anche se è un condominio minimo
La villetta bifamiliare è un condominio e per dividersi il giardino occorre l’accordo di ambedue
Dividere parti comuni di un edificio condominiale? Non è possibile senza il consenso di tutti i partecipanti al condominio e se la divisione rende incomodo l’uso della cosa a ciascun condòmino, anche se si tratta di un condiominiiominimo composto da due sole unità immobiliari. Lo ha chiarito il Tribunale di Trieste nella sentenza 397 del 2019 . Oggetto della causa sono le parti comuni che circondano due abitazioni costituenti porzioni speculari di un edificio bifamiliare. Praticamente un fazzoletto di terra intorno alla villetta. Una delle due proprietarie conveniva in giudizio la seconda, chiedendo la divisione giudiziale di tali parti, fondando la sua domanda su un accordo sottoscritto, per tale compito, con una società poi dichiarata fallita e sulle norme del Codice civile che consentono al comproprietario di richiedere la divisione in ogni momento. Ma il Tribunale le ha dato torto: senza l’uninimità (cioè il consenso dellasola altra proprietaria) niente divisione.
Scomodità e mancato consenso
L'attrice chiamato in giudizio anche la Banca, titolare di ipoteca volontaria sui beni. La convenuta, opponendosi alla domanda dell'attrice, rimarcava la natura condominiale dei beni e, richiamando l'art. 1119 c.c., affermava che tale divisione non fosse possibile per mancanza del suo consenso e perché avrebbe reso molto più incomodo l'uso dei beni. Inoltre, evidenziava l'inefficacia del precedente accordo per via di una serie di violazioni commesse a suo danno dalla attrice stessa. Tra le altre, la rimozione di un cancelletto che collegava la scala condominiale del comprensorio con la corte comune, la mancata consegna delle chiavi di un cancelletto da lei realizzato e l'occupazione con grossi vasi di porzioni della corte comune, oltre al mancato rimborso della quota parte delle spese anticipate per lo svuotamento e pulizia della fossa biologica a servizio di entrambe le abitazioni.
Per tutto questo, la convenuta chiedeva la condanna nei confronti dell'attrice.
Il Tribunale, esaminando il caso, rigettava la domanda di divisione, non trovando alcun fondamento né sul contratto siglato dalle parti né su norme giuridiche. Contratto ineseguibile poiché la società era stata dichiarata fallita.
Condominio e non comproprietà
La comproprietà sul bene era di tipo condominiale, non ordinaria, e come tale, soggetta alla disciplina dell'art. 1119 c.c. il quale stabilisce che le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio.
Il criterio per stabilire se, in presenza di un condominio minimo , un bene sia in semplice comproprietà o in regime di condominio è tracciato dalla Corte di Cassazione, la quale ha affermato che tale criterio si fonda sulla relazione che lega i beni propri e quelli comuni, poiché nel condominio i beni comuni sono legati alle unità abitative da una relazione di “accessorietà materiale o funzionale”.
Beni accessori
I beni che l'attrice intendeva dividere erano “accessori” rispetto alle singole abitazioni le quali sono servite da impianti unicicollocati sulla parte comune e ampie zone sono funzionalmente collegate indistintamente ad entrambe le abitazioni. La circostanza che i beni in proprietà esclusiva fossero costituiti da proprietà orizzontali non escludeva la configurabilità di un condominio, come stabilito dalla Legge 220/2012 e dall'art. 1117bis c.c. che ha esteso la disciplina del condominio a tutti i casi in cui più unità immobiliari abbiano parti in comune.
Il Tribunale, rigettando la domanda attorea, accoglieva quelle della convenuta sia in merito all'eliminazione delle opere eseguite dall'attrice, in quanto non potevano essere realizzate per utilizzo esclusivo collocandovi beni personali senza il consenso degli altri contitolari, sia alla condanna alla rifusione della metà delle spese pari ad euro 237,19 per lo svuotamento della fossa biologica, trattandosi essa di unimpianto comune, sia della consegna delle chiavi del cancelletto.
L'attrice veniva, inoltre, condannata al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 13.000,00 per competenze di avvocato e di euro 4.000,00 per competenze di avvocato, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CNAP come per legge.
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