Condominio

L’amministratore non risponde di falso ideologico se la D.i.a non riguarda la parte dello stabile oggetto di abusi

Per comprovare il reato, la parte offesa deve dimostrare il nesso causale tra l’illecito e il danno denunciato

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di G. Sgrò - Centro studi Aiac

Con la sentenza 7203/2023, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’amministratore di condominio non commette il reato di cui all’articolo 483 del Codice penale nel caso in cui la D.i.a. faccia riferimento a una parte dello stabile diversa da quella su cui siano stati commessi abusi edilizi.

Il caso

Il Tribunale assolveva Tizio dal reato di cui all’articolo 483 del Codice penale, con la formula perché il fatto non sussiste, ascrittogli in qualità di amministratore del condominio Alfa, relativo alla D.i.a. concernente opere di restauro conservativo delle facciate e delle coperture della porzione orientale del predetto stabile, che si assumeva falsa poiché attestante, contrariamente al vero, che nell’immobile in questione non erano stati commessi abusi edilizi. E che, in ordine alle parti condominiali, non erano state presentate domande di condono edilizio. I giudici del gravame confermavano la sentenza del Tribunale. La Corte distrettuale rilevava la mancanza dell’elemento oggettivo del reato, dal momento che la D.i.a. “incriminata” faceva riferimento a una parte del condominio diversa da quella interessata dagli abusi edilizi, dovendosi operare una distinzione tra i lavori che andavano eseguiti nella parte orientali dell’immobile, assentiti dalla competente soprintendenza, e quelli relativi alla parte occidentale, interessati dagli abusi.

Assenza di nesso causale tra preteso danno e reato

Altresì, i giudici d’appello evidenziavano la mancanza di un nesso causale fra il preteso danno vantato dalle parti civili e il reato di falso contestato a Tizio. A questo punto, le parti civili si rivolgevano alla Suprema corte per domandare l’annullamento della sentenza d’appello e denunciare, in particolare, la violazione di legge e il vizio di motivazione, con riferimento agli articolo 185 del Codice penale e 2043 del Codice civile in relazione alla ritenuta impossibilità di ancorare una pretesa risarcitoria alla condotta di falso.

Secondo i ricorrenti, se Tizio, invece di escludere falsamente la sussistenza di abusi edilizi, avesse correttamente indicato nella D.i.a. tutte le violazioni commesse durante i lavori condominiali illegittimi, già svolti alle scale A e B del condominio Alfa, il Comune avrebbe impedito la realizzazione di ulteriori illeciti, con l’aggravio dei relativi ingentissimi costi anche a carico dei condòmini di minoranza, come le parti civili ricorrenti, che da sempre si erano opposte all’esecuzione di tali lavori.

La pronuncia della Cassazione

I giudici di legittimità davano torto ai ricorrenti affermando che «i delitti contro la fede pubblica, per la loro natura plurioffensiva, tutelano non solo l’interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello dei soggetti privati nella cui sfera giuridica l’atto sia destinato a incidere, con la conseguenza che essi sono legittimati a costituirsi parte civile».Gli ermellini precisavano che tutto questo implica l’esigenza di fornire la prova dell’esistenza di un nesso causale fra il reato di falso e il danno che si assume patito in conseguenza di questa condotta illecita, cosa che, nella vicenda esaminata, non era avvenuta da parte delle parti civili. Pertanto, la Suprema Corte dichiarava inammissibili i ricorsi e condannava i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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