L’uso del cavedio non può tradursi nella stabile ed esclusiva occupazione
Risulta illegittima se lede il diritto degli altri condòmini di farne un uso paritetico, trattandosi di un bene comune
L’uso del cavedio da parte di ciascun condomino - e per esso del locatario - è sottoposto a due fondamentali limiti consistenti nel divieto di alterare la destinazione del bene comune e nell’obbligo di consentirne l’uso paritetico agli altri condòmini. Perciò, non può mai tradursi nell’occupazione integrale dello stesso depositandovi materiali. In caso di stabile ed esclusiva occupazione del bene comune da parte del singolo condomino, andrà valutato se la destinazione sia stata alterata e se vi sia compatibilità col pari diritto dei restanti condòmini. Lo ha ribadito la Corte di appello di Milano con la sentenza 774/2023 .
Il cavedio
Va anzitutto chiarito che il cavedio, cortile di modeste dimensioni delimitato dai muri perimetrali e destinato a fornire aria e luce agli ambienti, è assoggettato, similmente al cortile e salvo titolo contrario, al regime giuridico dei beni comuni previsto dall’articolo 1117 del Codice civile. La Cassazione (4865/2023) ha recentemente chiarito che non rileva, se ad esso si accede (com’è, ad esempio, nel caso di specie) solo da una proprietà privata occorrendo, per escluderlo dalla comunione, che risulti destinato per le sue caratteristiche strutturali al servizio esclusivo di un immobile. Questo in quanto la sua destinazione è quella di dare aria e luce agli alloggi compresi nel condominio. Secondo gli ermellini, è indubbio che il cavedio rientri tra i beni comuni. Altrimenti denominato chiostrina, vanella o pozzo luce, è destinato a dare aria e luce a locali secondari (bagni, disimpegni, servizi) e sottoposto allo stesso regime giuridico del cortile, contemplato dall’articolo 1117, numero 1, Codice civile. È ininfluente che ad esso si acceda solo tramite proprietà individuale poiché, ai fini dell’esclusione della proprietà comune, occorre la prova che il bene, per caratteristiche strutturali, risulti destinato al servizio esclusivo di uno o più immobili.
Il giudizio di primo grado
Dopo aver premesso la natura del cavedio, si osserva che il giudizio di prime cure, svoltosi davanti al tribunale ambrosiano, è stato definito con la condanna, chiesta dal condominio, della locatrice e locataria di un cespite immobiliare situato al piano terra dello stabile. Queste sono state ritenute solidalmente responsabili di aver indebitamente occupato il cavedio con materiali di pertinenza della locatrice, ragion per cui il tribunale le ha condannate in solido a liberare con immediatezza lo spazio.
Il giudice ha accertato che l’area occupata dalla locataria con propri oggetti era un cavedio e ha chiarito che lo spazio, il cui accesso è garantito solo tramite l’immobile condotto in locazione, costituisce bene comune del condominio. Attratto dal principio della presunzione di comunione (prevista dall’articolo 1117, numero 1, Codice civile), il cavedio è delimitato dalle mura perimetrali e dalle fondazioni dello stabile. In conclusione, ha ritenuto che l’utilizzo esercitato dalla locataria ha oltrepassato i limiti ammessi dall’articolo 1102 del Codice civile (divieto di mutare la destinazione del bene e di impedire agli altri condòmini di farne pari uso conforme al loro diritto).
Le richieste nel gravame
La locataria ha chiesto la riforma della sentenza mentre il condominio la sua conferma. La proprietaria, condomina e locatrice, invece, ha dedotto di aver reiteratamente esortato la locataria a liberare il cavedio per cui nessuna responsabilità avrebbe potuto esserle ascritta per un illecito imputabile ad altri. Ha chiesto il rigetto dell’appello e la condanna della locataria a manlevarla dalle conseguenze pregiudizievoli nascenti dalla definizione della controversia.
I motivi dell’appello proposti dalla locataria
I profili d’impugnazione vertono sulla legittimità della condotta tenuta dalla locataria in rapporto ai limiti imposti dal dettato codicistico sull’uso della cosa comune (ossia modifica della destinazione d’uso e impedimento agli altri condòmini di farne parimenti uso). Anzitutto ha dedotto l’erroneità della pronuncia nella parte in cui qualifica lo spazio comune come cavedio - area finalizzata, come chiarito, ad arieggiare e illuminare gli ambienti che si affacciano - essendo invece un mero spazio tecnico. Inoltre, la sua destinazione d’uso non sarebbe impedita dall’utilizzo esercitato dal locatore e locatario.
È poi errato sostenere che i materiali depositati dalla locataria ostacolano l’illuminazione e l’areazione degli ambienti superiori. Per l’appellante si tratterebbe di «cavedio tecnico o passo d’uomo» previsto dal Regolamento di igiene del Comune di Milano, quindi di sito entro il quale si collocano impianti (invero, nel caso di specie vi è allocata una vasca di raccolta fognaria). In ordine all’impedimento ad altri condòmini dell’uso dell’area comune, ribadisce che l’accesso avviene mediante i soli locali dell’appellante e osserva che la colonna d’aria che interessa le unità immobiliari dei condòmini posti ai piani sovrastanti è libera.
Ha denunciato, con il secondo profilo di impugnazione, l’erroneità della sentenza nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che la condotta della locataria valichi i limiti prescritti dall’articolo 1102 del Codice civile poiché determina l’usucapione del cavedio. L’appellante rileva che nessun impedimento è mai stato frapposto all’accesso dei condòmini. Inoltre, la locataria dell’unità immobiliare non avrebbe potuto usucapire il bene. In terzo luogo, aggrappandosi a un precedente di legittimità (Cassazione, 14107/2012), l’appellante sostiene che la condotta è conforme alla normativa poiché qualora possa prevedersi che i restanti condòmini non facciano pari uso del bene comune, la modifica apportata allo stesso da un condomino è legittima. L’impedimento alla modifica viene a esistere solo se è possibile prevedere che i titolari accrescano il pari uso di cui hanno diritto.
Le ragioni del verdetto
La Corte distrettuale ambrosiana respinge l’appello. Demolisce il primo rilievo dell’appellante incentrato sulla qualificazione dell’area come «cavedio» o «cavedio tecnico» ritenendo ininfluente ogni differenziazione poiché per entrambe le ipotesi si tratterebbe pur sempre di bene comune assoggettato al regime dell’articolo 1102 del Codice civile. Il tribunale ha valutato la condotta dell’appellante riguardo ai limiti dettati per il condòmino nei confronti del condominio, mentre nella fattispecie si tratta di comportamento di un terzo (locataria) al quale nessuna facoltà d’uso del bene comune può essergli riconosciuta. La locatrice si è sempre dissociata dal comportamento della sua locataria.
Per la Corte distrettuale ciò sarebbe sufficiente a qualificare illecita l’occupazione senza titolo da parte della locataria con conseguente rigetto dell’appello. Il giudice, in presenza di condotta consistente nell’esclusiva occupazione del bene, valuta se sia stata alterata la destinazione e se vi sia compatibilità con il pari diritto dei restanti condòmini. È indiscussa la modifica della destinazione d’uso dell’area comune poiché il deposito di materiali e merci della locataria confligge con la funzione di fornire aria e luce agli ambienti degli immobili sovrastanti e con l’allocazione degli impianti tecnici (a quest’ultimo proposito, la Corte ha osservato che il condominio ha allocato nel cavedio una vasca di raccolta delle acque reflue non immesse nelle fogne).
La presenza di materiali e merci impedisce di manutenere gli impianti e la vasca e ciò contrasta con la destinazione d’uso del bene. Inoltre, il pari uso, pur essendo compatibile con l’uso esclusivo di un condomino, non può estendersi all’occupazione di porzione del bene comune tale da condurre alla usucapione mediante attrazione nell’esclusiva sfera. Usucapione che tuttavia sarebbe possibile per la locataria essendo la posizione di detentrice qualificata circoscritta all’immobile locatole, ma non al cavedio.